Ricevo da Associazione Madonna Umiltà di Pistoia e pubblico
Devozione della Chiesa per Maria
La Liturgia nel corso dell'anno ci ha mostrato più volte che Gesù e Maria sono così uniti nel piano divino della Redenzione che si incontrano sempre insieme ed è impossibile separarli sia nel culto pubblico che nella devozione privata. La Chiesa, che proclama Maria Mediatrice di tutte le grazie, la invoca continuamente per ottenere i frutti della Redenzione che con il Figlio ha acquistati. Comincia sempre l'anno liturgico col tempo di Avvento, che è un vero mese di Maria, invita i fedeli a consacrarle il mese di maggio, ha disposto che il mese di ottobre sia il mese del Rosario e le feste di Maria nel Calendario Liturgico sono così numerose che non passa un giorno solo dell'anno, senza che Maria in qualche luogo della terra sia festeggiata sotto un titolo o sotto un altro, dalla Chiesa universale, da una diocesi o da un Ordine religioso.
La Liturgia nel corso dell'anno ci ha mostrato più volte che Gesù e Maria sono così uniti nel piano divino della Redenzione che si incontrano sempre insieme ed è impossibile separarli sia nel culto pubblico che nella devozione privata. La Chiesa, che proclama Maria Mediatrice di tutte le grazie, la invoca continuamente per ottenere i frutti della Redenzione che con il Figlio ha acquistati. Comincia sempre l'anno liturgico col tempo di Avvento, che è un vero mese di Maria, invita i fedeli a consacrarle il mese di maggio, ha disposto che il mese di ottobre sia il mese del Rosario e le feste di Maria nel Calendario Liturgico sono così numerose che non passa un giorno solo dell'anno, senza che Maria in qualche luogo della terra sia festeggiata sotto un titolo o sotto un altro, dalla Chiesa universale, da una diocesi o da un Ordine religioso.
La festa del Rosario
La Chiesa riassume nella festa di oggi tutte le solennità dell'anno e, con i misteri di Gesù e della Madre sua, compone come un'immensa ghirlanda per unirci a questi misteri e farceli vivere e una triplice corona, che posa sulla testa di Colei, che il Cristo Re ha incoronata Regina e Signora dell'Universo, nel giorno del suo ingresso in cielo.
Misteri di gioia che ci riparlano dell'Annunciazione, della Visitazione, della Natività, della Purificazione di Maria, di Gesù ritrovato nel tempio; Misteri di dolore, dell'agonia, della flagellazione, della coronazione di spine, della croce sulle spalle piagate e della crocifissione; Misteri di gloria, cioè della Risurrezione, dell'Ascensione del Salvatore, della Pentecoste, dell'Assunzione e dell'incoronazione della Madre di Dio. Ecco il Rosario di Maria.
Storia della festa
La festa del Rosario fu istituita da san Pio V, in ricordo della vittoria riportata a Lepanto sui Turchi. È, cosa nota come nel secolo XVI dopo avere occupato Costantinopoli, Belgrado e Rodi, i Maomettani minacciassero l'intera cristianità. Il Papa san Pio V, alleato con il re di Spagna Filippo II e la Repubblica di Venezia, dichiarò la guerra e Don Giovanni d'Austria, comandante della flotta, ebbe l'ordine di dar battaglia il più presto possibile. Saputo che la flotta turca era nel golfo di Lepanto, l'attaccò il 7 ottobre dei 1571 presso le isole Echinadi. Nel mondo intero le confraternite del Rosario pregavano intanto con fiducia. I soldati di Don Giovanni d'Austria implorarono il soccorso del cielo in ginocchio e poi, sebbene inferiori per numero, cominciarono la lotta. Dopo 4 ore di battaglia spaventosa, di 300 vascelli nemici solo 40 poterono fuggire e gli altri erano colati a picco mentre 40.000 turchi erano morti. L'Europa era salva.
Nell'istante stesso in cui seguivano gli avvenimenti, san Pio V aveva la visione della vittoria, si inginocchiava per ringraziare il cielo e ordinava per il 7 ottobre di ogni anno una festa in onore della Vergine delle Vittorie, titolo cambiato poi da Gregorio XIII in quello di Madonna del Rosario.
Il Rosario L'uso di recitare Pater e Ave Maria risale a tempi remotissimi, ma la preghiera meditata del Rosario come noi l'abbiamo oggi è attribuita a san Domenico. È per lo meno certo che egli molto lavorò con i suoi religiosi per la propagazione del Rosario e che ne fece l'arma principale nella lotta contro gli eretici Albigesi, che nel secolo XIII infestavano il sud della Francia.
La pia pratica tende a far rivivere nell'anima nostra i misteri della nostra salvezza, mentre con la loro meditazione si accompagna la recita di decine di Ave Maria, precedute dal Pater e seguite dal Gloria Patri. A prima vista la recita di molte Ave Maria può parere cosa monotona, ma con un poco di attenzione e di abitudine, la meditazione, sempre nuova e più approfondita, dei misteri della nostra salvezza, porta grandiosità e varietà. D'altra parte si può dire che nel Rosario si trova tutta la religione e come la somma di tutto il cristianesimo.
Il Rosario è una somma di fede: riassunto cioè delle verità che noi dobbiamo credere, che ci presenta sotto forma sensibile e vivente. Le espone unendovi la preghiera, che ottiene la grazia per meglio comprenderle e gustarle.
Il Rosario è una somma di morale: Tutta la morale si riassume nel seguire e imitare Colui, che è "la Via, la Verità, la Vita" e con la preghiera dei Rosario noi otteniamo da Maria la grazia e la forza di imitare il suo divino Figliolo.
Il Rosario è una somma di culto: Unendoci a Cristo nei misteri meditati, diamo al Padre l'adorazione in spirito e verità, che Egli da noi attende e ci uniamo a Gesù e Maria per chiedere, con loro e per mezzo loro, le grazie delle quali abbiamo bisogno.
Il Rosario sviluppa le virtù teologali e ci offre il mezzo di irrobustire la nostra carità, fortificando le virtù della speranza e della fede, perché "con la meditazione frequente di questi misteri l'anima si infiamma di amore e di riconoscenza di fronte alle prove di amore che Dio ci ha date e desidera con ardore le ricompense celesti, che Cristo ha conquistate per quelli che saranno uniti a Lui, imitando i suoi esempi e partecipando ai suoi dolori. In questa forma di orazione la preghiera si esprime con parole, che vengono da Dio stesso, dall'Arcangelo Gabriele e dalla Chiesa ed è piena di lodi e di domande salutari, mentre si rinnova e si prolunga in ordine, determinato e vario nello stesso tempo, e produce frutti di pietà sempre dolci e sempre nuovi" (Enciclica Octobri mense del 22 settembre 1891).
Il Rosario unisce le nostre preghiere a quelle di Maria nostra Madre. "Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi poveri peccatori". Ripetiamo con rispetto il saluto dell'Angelo e umilmente aggiungiamo la supplica della confidenza filiale. Se la divinità, anche se incarnata e fatta uomo, resta capace di incutere timore, quale timore potremmo avere di questa donna della stessa nostra natura, che ha in eterno il compito di comunicare alle creature le ricchezze e le misericordie dell'Altissimo? Confidenza filiale. Sì, perché l'onnipotenza di Maria viene dal fatto di essere Madre di Gesù, l'Onnipotente, e ha diritto alla nostra confidenza, perché è nello stesso tempo nostra Madre, non solo in virtù del testamento dettato da Gesù sulla Croce, quando disse a Giovanni: "Ecco tua Madre", e a Maria: "Ecco tuo figlio", ma ancora perché nell'istante dell'Incarnazione, la Vergine concepì, insieme con Gesù, tutta l'umanità, che egli incorporava a sé.
Membri del Corpo mistico di cui Cristo è il capo, siamo stati formati con Gesù nel seno materno della Vergine Maria e vi restiamo fino al giorno della nostra nascita alla vita eterna.
Maternità spirituale, ma vera, che ci mette con la Madre in rapporti di dipendenza e di intimità profondi, rapporti di bambino nel seno della Madre.
Qui è il segreto della nostra devozione per Maria: è nostra Madre e come tale sappiamo di poter tutto chiedere al suo amore, perché siamo suoi figli!
Ma, se la madre, appunto perché madre, pensa necessariamente ai suoi figli, i figli, per l'età, sono facili a distrarsi e il Rosario è lo strumento benedetto che conserva la nostra intimità con Maria e ci fa penetrare sempre più profondamente nel suo cuore.
Strumento divino il Rosario che la Vergine porta in tutte le sue apparizioni da un secolo in qua e che non cessa di raccomandare. Strumento della devozione cattolica per eccellenza, in cui l'umile donna senza istruzione e il sapiente teologo sono a loro agio, perché vi trovano il cammino luminoso e splendido, la via mariana, che conduce a Cristo e, per Cristo, al Padre.
Così considerato il Rosario realizza tutte le condizioni di una preghiera efficace, ci fa vivere nell'intimità di Maria e, essendo essa Mediatrice, suo compito è di condurci a Dio, di portare le nostre preghiere fino al cuore di Dio. Per Maria diciamo i Pater, che inquadrano le decine di Ave Maria, e, siccome quella è la preghiera di Cristo e contiene tutto ciò che Dio volle che noi gli chiedessimo, noi siamo sicuri di essere esauditi.
Messa
Epistola (Prov. 8, 22-25; 32-35). - Il Signore mi possedette all'inizio delle sue opere, fin dal principio, avanti la creazione. Ab aeterno fui stabilita, al principio, avanti che fosse fatta la terra. Non erano ancora gli abissi, ed io ero già concepita. Or dunque, o figli, ascoltatemi: Beati quelli che battono le mie vie. Ascoltate i miei avvisi per diventare saggi: non li ricusate. Beato l'uomo che mi ascolta e veglia ogni giorno alla mia porta, e aspetta all'ingresso della mia casa. Chi troverà me, avrà trovato la vita, e riceverà dal Signore la salute.
Maria nel compito di educatrice
Non si può eludere il carattere mariano di questa pagina dei Proverbi, obiettando che si applica al Verbo Incarnato e solo per accomodamento la Chiesa la riferisce alla Santa Vergine. La Chiesa non fa giochi di parole e la Liturgia non si diverte a far bisticci. Trattandosi di vite, che nel pensiero di Dio e nella realtà sono unite insieme, come le vite del Signore e della Madre sua unite nello stesso decreto di predestinazione, il senso accomodatizio è in sé e deve esserlo per noi uno degli aspetti multipli del senso letterale.
"Giova a noi, per onorare Maria, considerarla agente della nostra educazione soprannaturale. Noi non siamo mai grandi per Dio, né per la nostra madre, né per la Madre di Dio. Come non vi è cristianesimo senza la Santa Vergine così se l'amore di Dio non è accompagnato da un tenero amore per la Santa Vergine qualsiasi vita soprannaturale è in qualche modo mancante.
Maria è tutto quello che Essa insegnerà a chi l'ascolta e l'ama: l'esempio, la carità, l'influenza persuasiva...
Maria ha educato il Figlio ed educherà noi. Non si resiste ad una Madre" (Dom Delatte, Omelie sulla Santa Vergine, Plon, 1951).
Parole benedette
Il Vangelo è quello del Santo nome di Maria del 12 settembre.
Il Vangelo dell'Incarnazione dei quale rileggiamo volentieri le parole. Parole benedette perché vengono da Dio: L'Angelo infatti ne è soltanto il messaggero, parole e messaggio gli sono stati affidati da Dio. Parole benedette perché vengono da Maria, che, sola, poté riferire con ferma precisione di dettagli, che rivelano un testimonio e una esperienza immediata.
Messaggio di gioia
Questo messaggio è un messaggio di gioia. La gioia mancava nel mondo da molto tempo: era sparita dopo il primo peccato. Tutta l'economia dell'Antico Testamento e tutta la storia dell'umanità portavano un velo di tristezza, perché era continuamente presente all'uomo la coscienza di una inimicizia nei suoi rapporti con Dio, che doveva ancora essere espiata. Il messaggio è preceduto da un saluto pieno di gioia e da una parola pacifica, carezzevole: Ave. Questo Ave, primo elemento del messaggio, detto una volta verrà poi ripetuto per l'eternità.
La fede di Maria
La fede di Maria fu perfetta e non dubitò della verità divina neppure nel momento in cui chiedeva all'Angelo come si poteva compiere il messaggio. Gabriele rivelò il modo verginale della concezione promessa, sollecitando il consenso della Vergine per l'unione ipostatica, perché, per l'onore della Vergine e per l'onore della natura umana, Dio voleva avere da Maria il posto che avrebbe occupato nella sua creazione. E allora fu pronunziata con libertà e con consapevolezza la parola, che farà eco fino all'eternità: "Io sono l'umile ancella dei Signore: sia fatto secondo la sua volontà" (Dom Delatte: Opere citate).
Preghiera alla Vergine del Rosario
Ti saluto, o Maria, nella dolcezza del tuo gioioso mistero e all'inizio della beata Incarnazione, che fece di te la Madre dei Salvatore e la madre dell'anima mia. Ti benedico per la luce dolcissima che hai portato sulla terra.
O Signora di ogni gioia, insegnaci le virtù che danno la pace ai cuori e, su questa terra, dove il dolore abbonda, fa che i figli camminino nella luce di Dio affinché, la loro mano nella tua mano materna, possano raggiungere e possedere pienamente la meta cui il tuo cuore li chiama, il Figlio del tuo amore, il Signore Gesù.
Ti saluto, o Maria, Madre del dolore, nel mistero dell'amore più grande, nella Passione e nella morte del mio Signore Gesù Cristo e, unendo le mie lacrime alle tue, vorrei amarti in modo che il mio cuore, ferito come il tuo dai chiodi che hanno straziato il mio Salvatore, sanguinasse come sanguinano quelli del Figlio e della Madre. Ti benedico, o Madre del Redentore e Corredentrice, nel purpureo splendore dell'Amore crocifisso, ti benedico per il sacrificio, accettato al tempio ed ora consumato con l'offerta alla giustizia di Dio del Figlio della tua tenerezza e della tua verginità, in olocausto perfetto.
Ti benedico, perché il sangue prezioso che ora cola per lavare i peccati degli uomini, ebbe la sua sorgente nel tuo Cuore purissimo.
Ti supplico, o Madre mia, di condurmi alle vette dall'amore che solo l'unione più intima alla Passione e alla morte dell'amato Signore può far raggiungere.
Ti saluto, Maria, nella gloria della tua Regalità. Il dolore della terra ha ceduto il posto a delizie infinite e la porpora sanguinante ti ha tessuto il manto meraviglioso, che si addice alla Madre dei Re dei re e alla Regina degli Angeli. Permetti che levi i miei occhi verso di te durante lo splendore dei tuoi trionfi, o mia amabile Sovrana, e diranno i miei occhi, meglio di qualsiasi parola, l'amore del figlio il desiderio di contemplarti con Gesù nell'eternità, perché tu se!, Bella, perché sei Buona, o Clemente, o Pia, o Dolce Vergine Maria!
da: P. GUÉRANGER, L'anno liturgico. - II. Tempo Pasquale e dopo la Pentecoste, trad. it. L. ROBERTI, P. GRAZIANI e P. SUFFIA, Alba, Edizioni Paoline, 1959, pp. 1150-1156.
Marco Tangheroni, Cristianità n. 80 (1981)
La battaglia di Lepanto
All’alba del 7 ottobre 1571, esattamente quattrocentodieci anni fa, aveva inizio, nelle acque di Lepanto, porto della costa ionica, situato di fronte al Peloponneso e non distante da Corfù, una delle più grandi battaglie navali della storia, frutto glorioso degli sforzi della Cristianità controriformistica. Non pare affatto fuori luogo ricordarne l’anniversario, e ricordarlo nel modo più serio, cioè riassumendone la storia e inquadrando l’evento nella situazione del Mediterraneo negli anni immediatamente precedenti e seguenti, così da comprenderlo meglio e da poterlo valutare nella sua portata e nel suo significato.
La Cristianità e il Mediterraneo intorno alla metà del Cinquecento
Intorno alla metà del secolo XVI la situazione della Cristianità era delle più difficili. Il secolo si era aperto, è vero, all’insegna delle promettenti conquiste di nuove terre in Africa, in Asia, in America (1). Ma, già nel secondo decennio, l’incendio acceso dall’ex monaco Martin Lutero era divampato in tutta Europa, approfittando del fertile terreno costituito e preparato da molte tendenze affermatesi nel secolo precedente: dalla diffusione di un movimento culturale umanistico sostanzialmente acristiano, quando non anticristiano (2); alla decadenza della scolastica, con prevalenza in campo filosofico di un neoplatonismo paganeggiante e magico-esoterico o di un aristotelismo averroista; dalla decadenza delle élite aristocratiche e guerriere alla diffusione, nei vari ceti sociali, di una ricerca del lusso e dei piaceri, dal ricorrere di gravi crisi nella Chiesa, come l’esilio del papato ad Avignone e il successivo lungo scisma, alle difficoltà dei Papi rinascimentali di portare a termine una riforma della Chiesa, a parte qualche intervento pur significativo (3).
Mentre Carlo V tentava, attraverso una serie continua di guerre, di salvare l’unità dell’Impero, la Chiesa avviava, col grande Concilio di Trento, insieme uno sforzo di rinnovamento e di riaffermazione solenne delle verità dogmatiche minacciate dall’errore protestante. Come spesso è accaduto nella sua bimillenaria storia, essa trovava al suo interno una straordinaria capacità di reazione, documentata dal fiorire di santi e di nuovi ordini religiosi, dei quali il più importante fu certamente la Compagnia di Gesù, fondata da sant’Ignazio di Loyola, destinata a rappresentare l’arma di punta della riconquista cattolica di una parte dell’Europa.
Questa d’altra parte era tormentata dalle contrapposizioni politiche fra Stati cristiani. Così, la Francia — del resto tormentata da decennali e sanguinose guerre di religione — non esitava, talora ad appoggiarsi, nella sua politica antiasburgica, a principati protestanti, e giungeva a vedere con qualche sollievo la forza minacciosa dei turchi nel Mediterraneo.
In questo mare, poi, al pericolo turco si aggiungevano i divergenti interessi, anche comprensibili, degli altri Stati cristiani. Così, mentre Venezia era preoccupata soprattutto delle minacce e degli attacchi che i sultani e le loro forze portavano alle posizioni che essa conservava nello Ionio e nell’Egeo, la Spagna si preoccupava in particolare della presenza musulmana nel bacino occidentale del Mediterraneo, cercando di combatterla nelle sue basi nordafricane (4). Quando la generale situazione europea consentì a Carlo V di tentare di assumere una contro-iniziativa nel Mediterraneo, essa si articolò in due grandi spedizioni contro Tunisi e contro Algeri, delle quali solo una poté considerarsi riuscita (5).
È questo un primo elemento da tenere presente: la vittoria di Lepanto e, prima ancora, la costituzione di una flotta congiunta, non fu il risultato di interessi politici convergenti. Essi, semmai, divergevano, come si vide negli anni precedenti e seguenti la battaglia stessa. Essa fu piuttosto il frutto di scelte coraggiose e responsabili di alcuni principi e uomini politici e militari cristiani, nonché della persistenza, ancora notevole, anche a livello, popolare, dello spirito di crociata (6).
Comunque, dalla fine del Trecento, l’espansione turca si era fatta sempre più minacciosa e, pur avendo conosciuto qualche battuta di arresto — sia per vittorie cristiane che per alcune crisi interne —, nel complesso essa appariva quasi inarrestabile, mentre, negli intervalli tra le vere e proprie guerre, un continuo stillicidio di incursioni, attacchi corsari, saccheggi, catture di schiavi, massacri, manteneva, sui mari e lungo le coste, il terrore nei confronti degli aggressivi infedeli. Ed è questo un secondo elemento da tenere presente per valutare Lepanto: il senso di liberazione provato non solo e non tanto per la scomparsa di un pericolo — che fu, come vedremo, temporaneo —, ma anche per la prova raggiunta che fermare i turchi, volendo, era possibile.
L’assedio di Malta nel 1565
Nella impossibilità di rievocare in questa occasione il lungo elenco di vittorie e sconfitte, di piccoli e grandi episodi, di tentativi di sforzi comuni e di prevalenze di interessi particolari, mi pare utile prendere il 1565 come anno di avvio del racconto degli eventi che culminarono nella giornata di Lepanto. Ciò soprattutto per l’importanza che ebbe il fallimento del tentativo turco di conquistare Malta, tentativo che ebbe luogo proprio in quell’anno. Si può ben dire che esso segnò la fine di un periodo di netta prevalenza turca e l’avvio di un’azione cristiana di controffensiva, ancorché marcata da quei ritmi lenti e da quelle diffidenze reciproche di cui ho sopra fatto cenno (7).
L’importanza di Malta non era legata soltanto alla perdita eventuale di una posizione geograficamente e strategicamente del massimo rilievo, ma anche al fatto che l’isola era la base di quell’ordine militare dei cavalieri di S. Giovanni di Gerusalemme il quale, adattandosi alle nuove circostanze, non aveva perso il suo antico spirito e il senso della sua tradizione, legati alle Crociate e alla Terrasanta. Le sue non numerose galee agivano con decisione sul mare, impegnate regolarmente in una spesso vittoriosa, sempre fastidiosa contro-guerriglia navale, mentre le sue basi costituivano un punto d’appoggio vitale per tutte le navi cristiane (8).
L’attacco a Malta, con tutte le forze turche disponibili, fu deciso in persona dal vecchio Solimano, detto il Magnifico, per vendicare i danni patiti per opera dei Cavalieri di Malta e per dare prova che, dopo vari anni di regno, era ancora capace di sferrare offensive in grande stile contro il mondo cristiano; ciò benché, tra i suoi consiglieri, ve ne fossero alcuni contrari, timorosi delle grandi capacità militari dei Cavalieri — dimostrate anche durante il lungo assedio turco di Rodi — e favorevoli, semmai, ad attaccare le posizioni spagnole di Tunisi e di La Goletta, magari con una manovra diversiva contro Otranto. Comunque, il sovrano turco non era un avventato e si preoccupò di garantirsi la neutralità della Francia e di Venezia (9).
La flotta turca si mosse con grande velocità e rapidità, mentre in Occidente ci si interrogava sui possibili obiettivi che essa avrebbe potuto perseguire; a Malta, allorché il 18 maggio 1565 la immensa flotta turca si presentò davanti all’isola, non erano stati fatti quei preparativi militari — perfezionamento delle opere difensive già esistenti, ammasso di viveri e munizioni — che sarebbero stati dettati dalla consapevolezza di dovere affrontare un così terribile assedio.
In altra occasione, semmai, racconterò in dettaglio le vicende della resistenza dei Cavalieri e dei molti episodi degni di essere conosciuti (10). Qui basterà dire che essa fu eroica, talora ai limiti dell’incredibile. Uno storico, certo non accusabile di facili entusiasmi o di intenti apologetici, Fernand Braudel, dopo aver esposto come la situazione si presentasse favorevole ai turchi, non esita a scrivere: «Ma il gran maestro, Jean Parisot de la Vallette, e i suoi cavalieri si difesero meravigliosamente. Il loro coraggio salvò tutto» (11).
In effetti, quasi tutta l’isola fu occupata, tranne alcune fortificazioni che resistettero a oltranza, nonostante i violenti bombardamenti e i ripetuti assalti. I difensori del piccolo forte di Sant’Elmo morirono tutti, ma ai turchi fu necessario più di un mese per conquistarlo. Il potente forte di San Michele resistette ancora più a lungo, anche grazie alle coraggiose sortite del gran maestro e di un pugno di cavalieri che gettavano il panico nelle fila del grande esercito turco e alleggerivano la pressione degli assedianti.
Malta ebbe così il necessario respiro. Poterono arrivare i primi rinforzi inviati dal viceré di Napoli, don Garcia de Toledo. I turchi decisero di rinunciare all’impresa, abbandonando l’isola il 12 settembre.
È stato scritto che «la vittoria delle armi cristiane — vittoria piena e decisiva — aveva richiesto dolorosi sacrifici: duecentodieci i cavalieri caduti, sessantanove i serventi d’arme morti e, diciassette i dispersi, cinque cappellani caduti, cui devono essere aggiunti i soldati morti in combattimento dei quali settemila maltesi e duemilacinquecento di altre nazioni» (12). Ma Solimano il Magnifico, il conquistatore di Rodi e di Belgrado, di Buda e di Tabriz, era stato sconfitto e il mito della invincibilità delle sue armate era stato scosso.
La Lega Santa
Tuttavia, gli avvenimenti del 1565, pur favorevoli, nelle loro conclusioni, alle armi cristiane, avevano confermato i pericoli che derivavano dalla disunione politica e militare della Cristianità. La vittoriosa resistenza di Malta fu un motivo di incoraggiamento per la riscossa cristiana, ma anche un campanello di allarme. Ma altri fattori resero possibile la grande giornata di Lepanto, fra i quali, a parere di quasi tutti gli storici, anche non cattolici, decisiva fu l’azione di san Pio V, salito al pontificato all’inizio del 1566.
Il nuovo Papa era nato presso Alessandria nel 1504. Entrato giovane nell’ordine domenicano, si era distinto per l’austerità della vita e l’impegno nella difesa del cattolicesimo. Lo notò il cardinale Carafa, il quale, nel 1551, lo fece nominare commissario generale dell’Inquisizione; divenuto questi Papa con il nome di Paolo IV (1555-1559), nominò lo stimato padre Michele prima cardinale e, poi, grande inquisitore. Fu, invece, messo da parte dal successivo Papa, Pio IV, il quale, se pure ebbe il merito di chiudere il Concilio di Trento e di avviarne l’applicazione, seguiva una linea più moderata del suo predecessore. L’elezione del cardinale Ghislieri all’inizio del 1566 costituì, perciò, una sorpresa. Essa, dovuta in buona parte alla influenza in conclave di san Carlo Borromeo, segnò la definitiva affermazione, in seno alla Chiesa cattolica, di quelle forze che perseguivano lucidamente ed energicamente una strategia di contro-riforma basata sul rinnovamento della Chiesa stessa: sulla integrale applicazione delle decisioni di Trento; su un’azione, improntata a severità e decisione, di difesa della Cristianità sia sul piano esterno che sul piano interno, a tutti i livelli, da quello politico a quello culturale (13).
Fedele allo spirito di crociata e perfettamente consapevole della minaccia turca — rinnovata, dopo la morte di Solimano, dal nuovo giovane sultano, Selim, salito al trono nel 1566 —, san Pio V si adoperò in ogni modo per appianare i contrasti tra le potenze cristiane mediterranee e per spingerle a uno sforzo comune. Di lui Fernand Braudel ha giustamente scritto: «Certo, non un papa del Rinascimento: un’età ormai finita» (14). Meno giustamente, mi sembra, aggiunge che egli fu «intransigente e visionario» (15); intransigente certamente, ma visionario è termine equivoco, nella misura in cui sembra alludere non soltanto alla sua santità e alla sua tensione spirituale, ma anche a una astrattezza che la sua azione non ebbe. È spesso, purtroppo, con accuse simili che vengono liquidati i progetti la cui magnanimità spaventa; e si fanno valere le ragioni di una pseudo-prudenza politica, le quali sono, sovente, ben più irreali e astratte, anche se molto più comode.
Intanto, mentre le guerre di religione infuriavano in Francia e nei Paesi Bassi, l’espansione turca riprendeva minacciosa, non solo sul mare, ma anche alle frontiere ungheresi dell’impero. Inoltre, non senza sospetti di manovre turche, una rivolta dei musulmani di Granada, scoppiata nel 1569 si estendeva a gran parte dell’Andalusia, protraendosi a lungo.
Mentre le forze spagnole erano impegnate in questa difficile guerra, alla fine vinta sotto la guida di don Giovanni d’Austria — venticinquenne fratellastro del re di Spagna Filippo II —, Tunisi cadeva in mano musulmana e i turchi si apprestavano ad attaccare Cipro, approfittando delle difficoltà di Venezia, della quale, tra l’altro, era bruciato quasi completamente il famoso Arsenale, per un incendio di cui non si può escludere l’origine dolosa (16). Nel luglio, in effetti, i turchi sbarcavano a Cipro e nel settembre conquistavano la capitale, Nicosia. La resistenza cristiana continuò nella più fortificata Famagosta, sotto la guida dell’eroico Marco Antonio Bragadin, poi destinato a orrendo supplizio quando, nell’anno successivo, la città dovrà cadere, nonostante le promesse e i patti.
San Pio V colse l’occasione dell’attacco a Cipro per superare la politica, ormai insufficiente, dei piccoli e occasionali aiuti. Fin dall’inizio perseguì la costituzione di una vera e propria lega. Le trattative furono lente; bisognava superare interessi divergenti. Alla fine la Sacra Lega fu firmata il 20 maggio 1571, nonostante gli sforzi della Francia, che cercava di dissuadere Venezia; nonostante la riluttanza di Filippo II a impegnarsi nel Mediterraneo orientale; nonostante lo scetticismo dei veneziani, rafforzato da una deludente campagna fiaccamente condotta nell’autunno del 1570; nonostante i contrasti tra il granduca di Toscana Cosimo I e il sovrano spagnolo. Ed essa ebbe anche rapida attuazione, nonostante le obbiettive difficoltà di radunare e concentrare una forza ingente, come previsto dall’accordo e come necessario per la situazione, costruendo e armando navi, arruolando marinai e soldati, provvedendo ai rifornimenti resi tanto più difficili, in quanto il raccolto del 1570 era stato cattivo nei paesi spagnoli.
La battaglia di Lepanto
La flotta cristiana riuscì a concentrarsi a Messina alla fine di agosto del 1571. Presto, se si considerano le difficoltà che dovettero superarsi; troppo tardi, secondo i più prudenti tra i condottieri cristiani: Requesens, inviato personale di Filippo II, e Gian Andrea Doria consigliavano di limitarsi a un atteggiamento difensivo; nello stesso senso scriveva da Pisa don Garcia de Toledo. «Ma don Giovanni prestò ascolto soltanto ai capi veneziani e a quei capitani spagnuoli della sua cerchia che insistevano per l’azione; e, presa la decisione, si dedicò al compito con l’ardore esclusivo del suo temperamento» (17). In effetti, fu la sua energia, sostenuta dal fascino della sua personalità e dalla naturale attitudine al comando, a soffocare sul nascere riaffioranti contrasti tra capitani e tra equipaggi. Fu la sua volontà a perseguire lo scontro, andando a cercare l’armata nemica. Furono, poi, il suo coraggio e il suo valore militare a giocare un ruolo molto importante nella battaglia stessa.
Così, la flotta cristiana andò a cercare quella turca, la quale, dopo essersi spinta fino a metà Adriatico, era rientrata a Lepanto, per imbarcare nuovi equipaggi e nuovi viveri. La flotta cristiana era composta da duecentootto galee, quella turca da duecentotrenta. Centodieci galee avevano comandanti veneziani, anche se, per la scarsezza di uomini, gli equipaggi erano stati rinforzati con truppe provenienti dagli Stati spagnoli, in specie per il settore degli archibugieri. Trentasei provenivano da Napoli e dalla Sicilia; ventidue da Genova, al comando del Doria; ventitrè dagli Stati pontifici e da altri Stati italiani (18); quattordici dalla Spagna in senso stretto e tre da Malta (19).
La superiorità numerica, gli ordini avuti dal sultano e il suo temperamento personale indussero il comandante in capo della flotta turca, Alì, a non sottrarsi al combattimento, pur se nell’ambito dei comandanti turchi non poche voci si erano espresse in senso contrario.
Mentre le flotte si avvicinavano fu inalberato sulla galea del comandante in capo dell’armata cristiana (20) lo stendardo della Lega, offerto da san Pio V, che recava in campo cremisi il Crocifisso con, ai piedi, le armi del Pontefice, di Venezia e della Spagna. Don Giovanni e il comandante pontificio, Marcantonio Colonna, imbarcatisi su due piccoli e veloci legni, percorsero tutto lo schieramento, ricordando la natura divina della causa per cui combattevano e che il Crocifisso era il loro vero comandante. A bordo, i cappellani confessavano e i capitani incitavano; gli equipaggi lanciavano grida di guerra (21).
Un contemporaneo ricorda che nelle galee cristiane «tuttavia si toccavano assiduamente gli tamburi e ogni altra sorte di istrumenti», aggiungendo che esse «vogavano in bellissima ordinanza», cioè stando molto vicine, in modo da impedire la penetrazione di gruppi di navi nemiche (22). Il mare si calmò improvvisamente, e ciò parve miracoloso agli esperti di mare. La battaglia si accese, dopo che dalle imbarcazioni ammiraglie erano partiti i primi colpi di artiglieria.
Mentre Gian Andrea Doria, a capo dell’ala destra dello schieramento cristiano, era costretto ad allargarsi per evitare la manovra di aggiramento tentata dal corno sinistro dello schieramento turco, comandato da Euldj-Ali (23), la battaglia si decise nel centro. Le artiglierie giocarono un ruolo tutto sommato secondario, anche se la superiorità di fuoco delle sei galeazze veneziane, pesantemente armate, rimorchiate in prima fila, ebbe un peso rilevante nel gettare un sanguinoso disordine nel cuore dello schieramento nemico. Decisiva fu la superiorità delle fanterie cristiane nella serie dei combattimenti ravvicinati tra singoli gruppi di galee, guidate da capi che «non mancavano di mostrare animo gagliardo e grande» (24). Intanto, «gran parte degli schiavi cristiani che si trovavano sopra l’armata nemica [...] facevano ogni sforzo per procacciare il loro scampo e la vittoria dei nostri» (25).
Molti furono gli episodi di eroismo: l’equipaggio della galera Fiorenza dell’Ordine di Santo Stefano, tutto ucciso salvo il suo comandante Tommaso de’ Medici e quindici uomini. Il generale Giustiniani, dell’Ordine di Malta, e il comandante della galera capitana dell’Ordine, fra’ Rinaldo Naro, furono feriti tre volte; quaranta cavalieri di Malta caddero nel combattimento (26): Morì, tre giorni dopo la battaglia anche il comandante in seconda veneziano, Agostino Barbarigo, il quale, accorgendosi che i suoi ordini non erano uditi bene, si scoprì il viso mentre «i nemici più fieramente saettavano; essendogli detto si coprisse [...] rispose che minor offesa egli sentirebbe di essere ferito che di non essere udito», e fu così ferito mortalmente (27). Del valore di don Giovanni si è detto; va anche ricordato il grande apporto di Marcantonio Colonna e del settantacinquenne comandante veneziano Sebastiano Venier.
Le proporzioni della sanguinosa battaglia possono essere riassunte in poche cifre. Se i caduti cristiani furono circa 9 mila, quelli turchi furono 30 mila, e varie altre migliaia quelli catturati. Soltanto trenta navi turche riuscirono a fuggire; delle altre, centodiciassette catturate e divise tra gli Stati membri della Lega e le rimanenti andarono distrutte (28).
Una vittoria senza conseguenze?
E la domanda che si pone Fernand Braudel, ricordando che una serie di storici, e primo — si potrebbe dire: naturalmente — Voltaire, hanno insistito sul fatto che negli anni successivi la vittoria non fu sfruttata a fondo (29).
In effetti riemersero antichi contrasti, mentre molti altri scacchieri impegnavano la Spagna. Nel 1575 Venezia fu fiaccata da una terribile epidemia (30). Nel 1578 don Giovanni d’Austria, che era nei Paesi Bassi a combattere contro i protestanti, morì improvvisamente. Ma si tratta di osservazioni storicamente non corrette, come già ho accennato in qualche osservazione precedente.
In realtà bisognerebbe domandarsi, per capire la portata dell’avvenimento, cosa sarebbe successo se la vittoria non ci fosse stata o, peggio, se ci fosse stata una sconfitta. Non solo tutte le posizioni veneziane nei mari Egeo, Ionio e Adriatico sarebbero cadute, ma la stessa intera Italia, e forse anche la Spagna, sarebbero state alla mercé dei turchi (31).
Allora comprenderemo la gioia dei popoli cristiani (32), l’entusiasmo dei veneziani all’arrivo della notizia, i festeggiamenti fatti un po’ dappertutto. Il Papa, quando ricevette dal nunzio veneziano la notizia della vittoria, proruppe in lacrime e ripeté le parole della Scrittura: «fuit homo missus a Deo cui nomen erat Johannes» (33). Il re Filippo II stava assistendo ai vespri nella cappella del suo palazzo, quando entrò l’ambasciatore veneziano, proprio mentre veniva intonato il Magnificat, gridando Vittoria! Vittoria!.
Ma il re non volle che si interrompesse la sacra funzione. Solo al termine fece leggere il dispaccio e intonare il Te Deum (34). Segno che si manteneva il senso della esatta gerarchia della storia in una buona prospettiva cattolica.
Certamente, la vittoria era stata ottenuta grazie a «la intelligentissima prudentia de i nostri generali, la bravura e destrezza de i capitani in mandare ad effetto, il valore de’ gentiluomini e soldati nell’essequire» (35). Ma, più ancora, a ben altre forze, secondo la bella espressione del senato veneto: «Non virtus, non arma, non duces, sed Maria Rosarii victores nos fecit», «non il valore, non le armi, non i condottieri ma la Madonna del Rosario ci ha fatto vincitori» (36). Del resto, la vittoria di Lepanto era avvenuta nel giorno in cui le confraternite del Rosario facevano tradizionalmente particolari devozioni (37).
Marco Tangheroni
***
(1) Di tali conquiste non bisogna dimenticare, accanto alle altre, le motivazioni di carattere religioso; cfr. Pierre Chaunu, La conquista e l’esplorazione dei nuovi mondi (XVI secolo), trad. it., Mursia, Milano 1977.
(2) Non è questa la sede per approfondire il discorso sui limiti e sui caratteri dell’umanesimo cristiano, che certamente esistette, ma, a mio parere, senza possibilità di caratterizzare nella sostanza il periodo e le tendenze e non senza illusioni ed errori di prospettiva.
(3) Plinio Corrêa de Oliveira, in Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3a ed. it. accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977, pp. 71-73, coglie l’importanza di questo periodo nell’avvio del processo rivoluzionario. Per le tendenze — sulle quali insiste giustamente il pensatore cattolico brasiliano — è sempre affascinante e ricca di stimoli la lettura di Johan Huizinga, L’autunno del Medioevo, trad. it., Sansoni, Firenze 1966. Interessante anche — proprio per l’orientamento marxista e progressista degli autori — Ruggero Romano e Alberto Tenenti, Alle origini del mondo moderno, Feltrinelli, Milano 1967. Per l’aspetto filosofico Rudolf Stadelmann, Il declino del Medioevo. Una crisi di valori, trad. it., Il Mulino, Bologna 1978 (l’originale edizione tedesca è del 1929).
(4) Fondamentale è Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, n. ed. it., Einaudi, Torino 1976, in particolare pp. 887-1326.
(5) Cfr. Giancarlo Sorgia, La politica nord-africana di Carlo V, Cedam, Padova 1963.
(6) A proposito di questo argomento si può vedere Franco Cardini, Le crociate tra il mito e la storia, Istituto di Cultura Nova Civitas, Roma 1971, pp. 292-332.
(7) F. Braudel, op. cit., considera il 1565 l’ultimo anno della supremazia turca.
(8) Cfr. Ubaldino Mori Ubaldini, La marina del sovrano militare ordine di San Giovanni di Gerusalemme di Rodi e di Malta, Regionale Editrice, Roma 1971. Per una visione d’insieme è tuttora fondamentale, sul piano degli avvenimenti militari, Camillo Manfroni, Storia della marina italiana dalla caduta di Costantinopoli alla battaglia di Lepanto (1453-1571), Roma 1897. Ricordo anche il congresso tenutosi a Venezia in occasione del quarto centenario, Il mediterraneo nella seconda metà del ’500 alla luce di Lepanto, Olfehki, Firenze 1974; cfr. anche Filipe Ruiz Martin, The battle of Lepanto and the Mediterranean, in The Journal of European Economic History, 1, 1 (1972), pp. 166-169.
(9) Cfr. U. Mori Ubaldini, op. cit., p. 220.
(10) Cfr. Francesco Balbi da Correggio, Diario dell’assedio di Malta, Palombi, Roma 1965; questo testo mi sembra il più interessante per avvicinarsi in modo diretto agli avvenimenti di quei mesi nell’isola.
(11) F. Braudel, op. cit., p. 1088.
(12) U. Mori Ubaldini, op. cit., p. 243.
(13) Cfr. Ludwig Von Pastor, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, trad. it., Roma 1944.
(14) F. Braudel, op. cit., p. 1100.
(15) Ibid., p. 1101
(16) Ibid., p. 1137.
(17) Ibid., p. 1176.
(18) A causa della tensione tra Cosimo e Filippo II le dodici galee toscane parteciparono come noleggiate dal Papa, le cui insegne — e non quelle stefaniane o medicee — innalzavano: cfr. Cesare Ciano, I primi Medici e il mare, Pacini, Pisa 1980, pp. 59-66.
(19) Cfr. Frederic C. Lane, Storia di Venezia, trad. it., 2a ed., Einaudi, Torino 1978, pp. 428-432.
(20) Una ricostruzione della galea reale di don Giovanni d’Austria si può vedere nel Museo Navale di Barcellona, in scala 1/1. Nella cattedrale della stessa città si conserva — ed è oggetto di gran devozione — un bel Crocifisso in legno, che si dice fosse a bordo della nave di don Giovanni.
(21) Cfr. Giovanni Pietro Contarini, Historia delle cose successe dal principio della guerra mossa da Selim ottomano ai Venetiani fino al dì della gran giornata vittoriosa contra i Turchi, Francesco Ramparetto, Venezia 1572, foglio 48 r.
(22) U. Mori Ubaldini, op. cit., p. 274.
(23) Si tratta dell’Uccialì o Uccialli delle fonti cristiane. Il comportamento del Doria fu molto criticato, sia da alcuni contemporanei che da alcuni storici moderni. Ma la storiografia contemporanea tende a riconoscere l’opportunità del suo comportamento.
(24) G. P. Contarini, op. cit., f. 50 v.
(25) Gerolamo Diedo, La battaglia di Lepanto, Daelli, Milano 1863, p. 35. Diedo era un veneziano abitante a Corfù, contemporaneo degli avvenimenti.
(26) Cfr. U. Mori Ubaldini, op. cit., p. 277.
(27) ci. Diedo, op. cit., pp. 29-30.
(28) Cfr. F. Lane, op. cit., p. 431.
(29) Cfr. F. Braudel, op. cit., p. 1181.
(30) Cfr. Paolo Preto, Peste e società a Venezia nel 1576, Neri Pozza, Vicenza 1978.
(31) Così conclude anche F. Braudel, op. cit., p. 1182 «[...] se, anziché badare soltanto a ciò che seguì a Lepanto, si pensasse alla situazione precedente, la vittoria apparirebbe come la fine di una miseria, la fine di un reale complesso d’inferiorità della Cristianità, la fine d’un altrettanto reale supremazia della flotta turca [...] Prima di far dell’ironia su Lepanto, seguendo le orme di Voltaire, è forse ragionevole considerare il significato immediato della vittoria. Esso fu enorme». Il contemporaneo Contarini (op. cit., f. 34), scrive che prima di Lepanto «già era da tutte le parti il Christianesimo pieno di terrore».
(32) Interessante documentazione in Guido Antonio Quarti, La battaglia di Lepanto nei canti popolari dell’epoca, Milano 1930.
(33) Andrea Dragonetti de Torres, La Lega di Lepanto nel carteggio diplomatico di don Luis de Torres nunzio straordinario di S. Pio V a Filippo II, Bocca, Torino 1931, p. 64. Peraltro, san Pio V aveva già ricevuto la notizia per mezzo di un rivelazione divina: cfr. card. Giorgio Grente, Il pontefice delle grandi battaglie San Pio V, Edizioni Paoline, Roma 1957, pp. 166-168.
(34) Ibid., pp. 62-63
(35) G. P. Contarini, op. cit., f. 54 r.
(36) Citato, non a caso, da Giovanni Cantoni, in conclusione del suo saggio introduttivo a P. Corrêa de Oliveira, op. cit., p. 50.
(37) Cfr. Pio Paschini, voce Lepanto, in Enciclopedia Cattolica.
All’alba del 7 ottobre 1571, esattamente quattrocentodieci anni fa, aveva inizio, nelle acque di Lepanto, porto della costa ionica, situato di fronte al Peloponneso e non distante da Corfù, una delle più grandi battaglie navali della storia, frutto glorioso degli sforzi della Cristianità controriformistica. Non pare affatto fuori luogo ricordarne l’anniversario, e ricordarlo nel modo più serio, cioè riassumendone la storia e inquadrando l’evento nella situazione del Mediterraneo negli anni immediatamente precedenti e seguenti, così da comprenderlo meglio e da poterlo valutare nella sua portata e nel suo significato.
La Cristianità e il Mediterraneo intorno alla metà del Cinquecento
Intorno alla metà del secolo XVI la situazione della Cristianità era delle più difficili. Il secolo si era aperto, è vero, all’insegna delle promettenti conquiste di nuove terre in Africa, in Asia, in America (1). Ma, già nel secondo decennio, l’incendio acceso dall’ex monaco Martin Lutero era divampato in tutta Europa, approfittando del fertile terreno costituito e preparato da molte tendenze affermatesi nel secolo precedente: dalla diffusione di un movimento culturale umanistico sostanzialmente acristiano, quando non anticristiano (2); alla decadenza della scolastica, con prevalenza in campo filosofico di un neoplatonismo paganeggiante e magico-esoterico o di un aristotelismo averroista; dalla decadenza delle élite aristocratiche e guerriere alla diffusione, nei vari ceti sociali, di una ricerca del lusso e dei piaceri, dal ricorrere di gravi crisi nella Chiesa, come l’esilio del papato ad Avignone e il successivo lungo scisma, alle difficoltà dei Papi rinascimentali di portare a termine una riforma della Chiesa, a parte qualche intervento pur significativo (3).
Mentre Carlo V tentava, attraverso una serie continua di guerre, di salvare l’unità dell’Impero, la Chiesa avviava, col grande Concilio di Trento, insieme uno sforzo di rinnovamento e di riaffermazione solenne delle verità dogmatiche minacciate dall’errore protestante. Come spesso è accaduto nella sua bimillenaria storia, essa trovava al suo interno una straordinaria capacità di reazione, documentata dal fiorire di santi e di nuovi ordini religiosi, dei quali il più importante fu certamente la Compagnia di Gesù, fondata da sant’Ignazio di Loyola, destinata a rappresentare l’arma di punta della riconquista cattolica di una parte dell’Europa.
Questa d’altra parte era tormentata dalle contrapposizioni politiche fra Stati cristiani. Così, la Francia — del resto tormentata da decennali e sanguinose guerre di religione — non esitava, talora ad appoggiarsi, nella sua politica antiasburgica, a principati protestanti, e giungeva a vedere con qualche sollievo la forza minacciosa dei turchi nel Mediterraneo.
In questo mare, poi, al pericolo turco si aggiungevano i divergenti interessi, anche comprensibili, degli altri Stati cristiani. Così, mentre Venezia era preoccupata soprattutto delle minacce e degli attacchi che i sultani e le loro forze portavano alle posizioni che essa conservava nello Ionio e nell’Egeo, la Spagna si preoccupava in particolare della presenza musulmana nel bacino occidentale del Mediterraneo, cercando di combatterla nelle sue basi nordafricane (4). Quando la generale situazione europea consentì a Carlo V di tentare di assumere una contro-iniziativa nel Mediterraneo, essa si articolò in due grandi spedizioni contro Tunisi e contro Algeri, delle quali solo una poté considerarsi riuscita (5).
È questo un primo elemento da tenere presente: la vittoria di Lepanto e, prima ancora, la costituzione di una flotta congiunta, non fu il risultato di interessi politici convergenti. Essi, semmai, divergevano, come si vide negli anni precedenti e seguenti la battaglia stessa. Essa fu piuttosto il frutto di scelte coraggiose e responsabili di alcuni principi e uomini politici e militari cristiani, nonché della persistenza, ancora notevole, anche a livello, popolare, dello spirito di crociata (6).
Comunque, dalla fine del Trecento, l’espansione turca si era fatta sempre più minacciosa e, pur avendo conosciuto qualche battuta di arresto — sia per vittorie cristiane che per alcune crisi interne —, nel complesso essa appariva quasi inarrestabile, mentre, negli intervalli tra le vere e proprie guerre, un continuo stillicidio di incursioni, attacchi corsari, saccheggi, catture di schiavi, massacri, manteneva, sui mari e lungo le coste, il terrore nei confronti degli aggressivi infedeli. Ed è questo un secondo elemento da tenere presente per valutare Lepanto: il senso di liberazione provato non solo e non tanto per la scomparsa di un pericolo — che fu, come vedremo, temporaneo —, ma anche per la prova raggiunta che fermare i turchi, volendo, era possibile.
L’assedio di Malta nel 1565
Nella impossibilità di rievocare in questa occasione il lungo elenco di vittorie e sconfitte, di piccoli e grandi episodi, di tentativi di sforzi comuni e di prevalenze di interessi particolari, mi pare utile prendere il 1565 come anno di avvio del racconto degli eventi che culminarono nella giornata di Lepanto. Ciò soprattutto per l’importanza che ebbe il fallimento del tentativo turco di conquistare Malta, tentativo che ebbe luogo proprio in quell’anno. Si può ben dire che esso segnò la fine di un periodo di netta prevalenza turca e l’avvio di un’azione cristiana di controffensiva, ancorché marcata da quei ritmi lenti e da quelle diffidenze reciproche di cui ho sopra fatto cenno (7).
L’importanza di Malta non era legata soltanto alla perdita eventuale di una posizione geograficamente e strategicamente del massimo rilievo, ma anche al fatto che l’isola era la base di quell’ordine militare dei cavalieri di S. Giovanni di Gerusalemme il quale, adattandosi alle nuove circostanze, non aveva perso il suo antico spirito e il senso della sua tradizione, legati alle Crociate e alla Terrasanta. Le sue non numerose galee agivano con decisione sul mare, impegnate regolarmente in una spesso vittoriosa, sempre fastidiosa contro-guerriglia navale, mentre le sue basi costituivano un punto d’appoggio vitale per tutte le navi cristiane (8).
L’attacco a Malta, con tutte le forze turche disponibili, fu deciso in persona dal vecchio Solimano, detto il Magnifico, per vendicare i danni patiti per opera dei Cavalieri di Malta e per dare prova che, dopo vari anni di regno, era ancora capace di sferrare offensive in grande stile contro il mondo cristiano; ciò benché, tra i suoi consiglieri, ve ne fossero alcuni contrari, timorosi delle grandi capacità militari dei Cavalieri — dimostrate anche durante il lungo assedio turco di Rodi — e favorevoli, semmai, ad attaccare le posizioni spagnole di Tunisi e di La Goletta, magari con una manovra diversiva contro Otranto. Comunque, il sovrano turco non era un avventato e si preoccupò di garantirsi la neutralità della Francia e di Venezia (9).
La flotta turca si mosse con grande velocità e rapidità, mentre in Occidente ci si interrogava sui possibili obiettivi che essa avrebbe potuto perseguire; a Malta, allorché il 18 maggio 1565 la immensa flotta turca si presentò davanti all’isola, non erano stati fatti quei preparativi militari — perfezionamento delle opere difensive già esistenti, ammasso di viveri e munizioni — che sarebbero stati dettati dalla consapevolezza di dovere affrontare un così terribile assedio.
In altra occasione, semmai, racconterò in dettaglio le vicende della resistenza dei Cavalieri e dei molti episodi degni di essere conosciuti (10). Qui basterà dire che essa fu eroica, talora ai limiti dell’incredibile. Uno storico, certo non accusabile di facili entusiasmi o di intenti apologetici, Fernand Braudel, dopo aver esposto come la situazione si presentasse favorevole ai turchi, non esita a scrivere: «Ma il gran maestro, Jean Parisot de la Vallette, e i suoi cavalieri si difesero meravigliosamente. Il loro coraggio salvò tutto» (11).
In effetti, quasi tutta l’isola fu occupata, tranne alcune fortificazioni che resistettero a oltranza, nonostante i violenti bombardamenti e i ripetuti assalti. I difensori del piccolo forte di Sant’Elmo morirono tutti, ma ai turchi fu necessario più di un mese per conquistarlo. Il potente forte di San Michele resistette ancora più a lungo, anche grazie alle coraggiose sortite del gran maestro e di un pugno di cavalieri che gettavano il panico nelle fila del grande esercito turco e alleggerivano la pressione degli assedianti.
Malta ebbe così il necessario respiro. Poterono arrivare i primi rinforzi inviati dal viceré di Napoli, don Garcia de Toledo. I turchi decisero di rinunciare all’impresa, abbandonando l’isola il 12 settembre.
È stato scritto che «la vittoria delle armi cristiane — vittoria piena e decisiva — aveva richiesto dolorosi sacrifici: duecentodieci i cavalieri caduti, sessantanove i serventi d’arme morti e, diciassette i dispersi, cinque cappellani caduti, cui devono essere aggiunti i soldati morti in combattimento dei quali settemila maltesi e duemilacinquecento di altre nazioni» (12). Ma Solimano il Magnifico, il conquistatore di Rodi e di Belgrado, di Buda e di Tabriz, era stato sconfitto e il mito della invincibilità delle sue armate era stato scosso.
La Lega Santa
Tuttavia, gli avvenimenti del 1565, pur favorevoli, nelle loro conclusioni, alle armi cristiane, avevano confermato i pericoli che derivavano dalla disunione politica e militare della Cristianità. La vittoriosa resistenza di Malta fu un motivo di incoraggiamento per la riscossa cristiana, ma anche un campanello di allarme. Ma altri fattori resero possibile la grande giornata di Lepanto, fra i quali, a parere di quasi tutti gli storici, anche non cattolici, decisiva fu l’azione di san Pio V, salito al pontificato all’inizio del 1566.
Il nuovo Papa era nato presso Alessandria nel 1504. Entrato giovane nell’ordine domenicano, si era distinto per l’austerità della vita e l’impegno nella difesa del cattolicesimo. Lo notò il cardinale Carafa, il quale, nel 1551, lo fece nominare commissario generale dell’Inquisizione; divenuto questi Papa con il nome di Paolo IV (1555-1559), nominò lo stimato padre Michele prima cardinale e, poi, grande inquisitore. Fu, invece, messo da parte dal successivo Papa, Pio IV, il quale, se pure ebbe il merito di chiudere il Concilio di Trento e di avviarne l’applicazione, seguiva una linea più moderata del suo predecessore. L’elezione del cardinale Ghislieri all’inizio del 1566 costituì, perciò, una sorpresa. Essa, dovuta in buona parte alla influenza in conclave di san Carlo Borromeo, segnò la definitiva affermazione, in seno alla Chiesa cattolica, di quelle forze che perseguivano lucidamente ed energicamente una strategia di contro-riforma basata sul rinnovamento della Chiesa stessa: sulla integrale applicazione delle decisioni di Trento; su un’azione, improntata a severità e decisione, di difesa della Cristianità sia sul piano esterno che sul piano interno, a tutti i livelli, da quello politico a quello culturale (13).
Fedele allo spirito di crociata e perfettamente consapevole della minaccia turca — rinnovata, dopo la morte di Solimano, dal nuovo giovane sultano, Selim, salito al trono nel 1566 —, san Pio V si adoperò in ogni modo per appianare i contrasti tra le potenze cristiane mediterranee e per spingerle a uno sforzo comune. Di lui Fernand Braudel ha giustamente scritto: «Certo, non un papa del Rinascimento: un’età ormai finita» (14). Meno giustamente, mi sembra, aggiunge che egli fu «intransigente e visionario» (15); intransigente certamente, ma visionario è termine equivoco, nella misura in cui sembra alludere non soltanto alla sua santità e alla sua tensione spirituale, ma anche a una astrattezza che la sua azione non ebbe. È spesso, purtroppo, con accuse simili che vengono liquidati i progetti la cui magnanimità spaventa; e si fanno valere le ragioni di una pseudo-prudenza politica, le quali sono, sovente, ben più irreali e astratte, anche se molto più comode.
Intanto, mentre le guerre di religione infuriavano in Francia e nei Paesi Bassi, l’espansione turca riprendeva minacciosa, non solo sul mare, ma anche alle frontiere ungheresi dell’impero. Inoltre, non senza sospetti di manovre turche, una rivolta dei musulmani di Granada, scoppiata nel 1569 si estendeva a gran parte dell’Andalusia, protraendosi a lungo.
Mentre le forze spagnole erano impegnate in questa difficile guerra, alla fine vinta sotto la guida di don Giovanni d’Austria — venticinquenne fratellastro del re di Spagna Filippo II —, Tunisi cadeva in mano musulmana e i turchi si apprestavano ad attaccare Cipro, approfittando delle difficoltà di Venezia, della quale, tra l’altro, era bruciato quasi completamente il famoso Arsenale, per un incendio di cui non si può escludere l’origine dolosa (16). Nel luglio, in effetti, i turchi sbarcavano a Cipro e nel settembre conquistavano la capitale, Nicosia. La resistenza cristiana continuò nella più fortificata Famagosta, sotto la guida dell’eroico Marco Antonio Bragadin, poi destinato a orrendo supplizio quando, nell’anno successivo, la città dovrà cadere, nonostante le promesse e i patti.
San Pio V colse l’occasione dell’attacco a Cipro per superare la politica, ormai insufficiente, dei piccoli e occasionali aiuti. Fin dall’inizio perseguì la costituzione di una vera e propria lega. Le trattative furono lente; bisognava superare interessi divergenti. Alla fine la Sacra Lega fu firmata il 20 maggio 1571, nonostante gli sforzi della Francia, che cercava di dissuadere Venezia; nonostante la riluttanza di Filippo II a impegnarsi nel Mediterraneo orientale; nonostante lo scetticismo dei veneziani, rafforzato da una deludente campagna fiaccamente condotta nell’autunno del 1570; nonostante i contrasti tra il granduca di Toscana Cosimo I e il sovrano spagnolo. Ed essa ebbe anche rapida attuazione, nonostante le obbiettive difficoltà di radunare e concentrare una forza ingente, come previsto dall’accordo e come necessario per la situazione, costruendo e armando navi, arruolando marinai e soldati, provvedendo ai rifornimenti resi tanto più difficili, in quanto il raccolto del 1570 era stato cattivo nei paesi spagnoli.
La battaglia di Lepanto
La flotta cristiana riuscì a concentrarsi a Messina alla fine di agosto del 1571. Presto, se si considerano le difficoltà che dovettero superarsi; troppo tardi, secondo i più prudenti tra i condottieri cristiani: Requesens, inviato personale di Filippo II, e Gian Andrea Doria consigliavano di limitarsi a un atteggiamento difensivo; nello stesso senso scriveva da Pisa don Garcia de Toledo. «Ma don Giovanni prestò ascolto soltanto ai capi veneziani e a quei capitani spagnuoli della sua cerchia che insistevano per l’azione; e, presa la decisione, si dedicò al compito con l’ardore esclusivo del suo temperamento» (17). In effetti, fu la sua energia, sostenuta dal fascino della sua personalità e dalla naturale attitudine al comando, a soffocare sul nascere riaffioranti contrasti tra capitani e tra equipaggi. Fu la sua volontà a perseguire lo scontro, andando a cercare l’armata nemica. Furono, poi, il suo coraggio e il suo valore militare a giocare un ruolo molto importante nella battaglia stessa.
Così, la flotta cristiana andò a cercare quella turca, la quale, dopo essersi spinta fino a metà Adriatico, era rientrata a Lepanto, per imbarcare nuovi equipaggi e nuovi viveri. La flotta cristiana era composta da duecentootto galee, quella turca da duecentotrenta. Centodieci galee avevano comandanti veneziani, anche se, per la scarsezza di uomini, gli equipaggi erano stati rinforzati con truppe provenienti dagli Stati spagnoli, in specie per il settore degli archibugieri. Trentasei provenivano da Napoli e dalla Sicilia; ventidue da Genova, al comando del Doria; ventitrè dagli Stati pontifici e da altri Stati italiani (18); quattordici dalla Spagna in senso stretto e tre da Malta (19).
La superiorità numerica, gli ordini avuti dal sultano e il suo temperamento personale indussero il comandante in capo della flotta turca, Alì, a non sottrarsi al combattimento, pur se nell’ambito dei comandanti turchi non poche voci si erano espresse in senso contrario.
Mentre le flotte si avvicinavano fu inalberato sulla galea del comandante in capo dell’armata cristiana (20) lo stendardo della Lega, offerto da san Pio V, che recava in campo cremisi il Crocifisso con, ai piedi, le armi del Pontefice, di Venezia e della Spagna. Don Giovanni e il comandante pontificio, Marcantonio Colonna, imbarcatisi su due piccoli e veloci legni, percorsero tutto lo schieramento, ricordando la natura divina della causa per cui combattevano e che il Crocifisso era il loro vero comandante. A bordo, i cappellani confessavano e i capitani incitavano; gli equipaggi lanciavano grida di guerra (21).
Un contemporaneo ricorda che nelle galee cristiane «tuttavia si toccavano assiduamente gli tamburi e ogni altra sorte di istrumenti», aggiungendo che esse «vogavano in bellissima ordinanza», cioè stando molto vicine, in modo da impedire la penetrazione di gruppi di navi nemiche (22). Il mare si calmò improvvisamente, e ciò parve miracoloso agli esperti di mare. La battaglia si accese, dopo che dalle imbarcazioni ammiraglie erano partiti i primi colpi di artiglieria.
Mentre Gian Andrea Doria, a capo dell’ala destra dello schieramento cristiano, era costretto ad allargarsi per evitare la manovra di aggiramento tentata dal corno sinistro dello schieramento turco, comandato da Euldj-Ali (23), la battaglia si decise nel centro. Le artiglierie giocarono un ruolo tutto sommato secondario, anche se la superiorità di fuoco delle sei galeazze veneziane, pesantemente armate, rimorchiate in prima fila, ebbe un peso rilevante nel gettare un sanguinoso disordine nel cuore dello schieramento nemico. Decisiva fu la superiorità delle fanterie cristiane nella serie dei combattimenti ravvicinati tra singoli gruppi di galee, guidate da capi che «non mancavano di mostrare animo gagliardo e grande» (24). Intanto, «gran parte degli schiavi cristiani che si trovavano sopra l’armata nemica [...] facevano ogni sforzo per procacciare il loro scampo e la vittoria dei nostri» (25).
Molti furono gli episodi di eroismo: l’equipaggio della galera Fiorenza dell’Ordine di Santo Stefano, tutto ucciso salvo il suo comandante Tommaso de’ Medici e quindici uomini. Il generale Giustiniani, dell’Ordine di Malta, e il comandante della galera capitana dell’Ordine, fra’ Rinaldo Naro, furono feriti tre volte; quaranta cavalieri di Malta caddero nel combattimento (26): Morì, tre giorni dopo la battaglia anche il comandante in seconda veneziano, Agostino Barbarigo, il quale, accorgendosi che i suoi ordini non erano uditi bene, si scoprì il viso mentre «i nemici più fieramente saettavano; essendogli detto si coprisse [...] rispose che minor offesa egli sentirebbe di essere ferito che di non essere udito», e fu così ferito mortalmente (27). Del valore di don Giovanni si è detto; va anche ricordato il grande apporto di Marcantonio Colonna e del settantacinquenne comandante veneziano Sebastiano Venier.
Le proporzioni della sanguinosa battaglia possono essere riassunte in poche cifre. Se i caduti cristiani furono circa 9 mila, quelli turchi furono 30 mila, e varie altre migliaia quelli catturati. Soltanto trenta navi turche riuscirono a fuggire; delle altre, centodiciassette catturate e divise tra gli Stati membri della Lega e le rimanenti andarono distrutte (28).
Una vittoria senza conseguenze?
E la domanda che si pone Fernand Braudel, ricordando che una serie di storici, e primo — si potrebbe dire: naturalmente — Voltaire, hanno insistito sul fatto che negli anni successivi la vittoria non fu sfruttata a fondo (29).
In effetti riemersero antichi contrasti, mentre molti altri scacchieri impegnavano la Spagna. Nel 1575 Venezia fu fiaccata da una terribile epidemia (30). Nel 1578 don Giovanni d’Austria, che era nei Paesi Bassi a combattere contro i protestanti, morì improvvisamente. Ma si tratta di osservazioni storicamente non corrette, come già ho accennato in qualche osservazione precedente.
In realtà bisognerebbe domandarsi, per capire la portata dell’avvenimento, cosa sarebbe successo se la vittoria non ci fosse stata o, peggio, se ci fosse stata una sconfitta. Non solo tutte le posizioni veneziane nei mari Egeo, Ionio e Adriatico sarebbero cadute, ma la stessa intera Italia, e forse anche la Spagna, sarebbero state alla mercé dei turchi (31).
Allora comprenderemo la gioia dei popoli cristiani (32), l’entusiasmo dei veneziani all’arrivo della notizia, i festeggiamenti fatti un po’ dappertutto. Il Papa, quando ricevette dal nunzio veneziano la notizia della vittoria, proruppe in lacrime e ripeté le parole della Scrittura: «fuit homo missus a Deo cui nomen erat Johannes» (33). Il re Filippo II stava assistendo ai vespri nella cappella del suo palazzo, quando entrò l’ambasciatore veneziano, proprio mentre veniva intonato il Magnificat, gridando Vittoria! Vittoria!.
Ma il re non volle che si interrompesse la sacra funzione. Solo al termine fece leggere il dispaccio e intonare il Te Deum (34). Segno che si manteneva il senso della esatta gerarchia della storia in una buona prospettiva cattolica.
Certamente, la vittoria era stata ottenuta grazie a «la intelligentissima prudentia de i nostri generali, la bravura e destrezza de i capitani in mandare ad effetto, il valore de’ gentiluomini e soldati nell’essequire» (35). Ma, più ancora, a ben altre forze, secondo la bella espressione del senato veneto: «Non virtus, non arma, non duces, sed Maria Rosarii victores nos fecit», «non il valore, non le armi, non i condottieri ma la Madonna del Rosario ci ha fatto vincitori» (36). Del resto, la vittoria di Lepanto era avvenuta nel giorno in cui le confraternite del Rosario facevano tradizionalmente particolari devozioni (37).
Marco Tangheroni
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(1) Di tali conquiste non bisogna dimenticare, accanto alle altre, le motivazioni di carattere religioso; cfr. Pierre Chaunu, La conquista e l’esplorazione dei nuovi mondi (XVI secolo), trad. it., Mursia, Milano 1977.
(2) Non è questa la sede per approfondire il discorso sui limiti e sui caratteri dell’umanesimo cristiano, che certamente esistette, ma, a mio parere, senza possibilità di caratterizzare nella sostanza il periodo e le tendenze e non senza illusioni ed errori di prospettiva.
(3) Plinio Corrêa de Oliveira, in Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3a ed. it. accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977, pp. 71-73, coglie l’importanza di questo periodo nell’avvio del processo rivoluzionario. Per le tendenze — sulle quali insiste giustamente il pensatore cattolico brasiliano — è sempre affascinante e ricca di stimoli la lettura di Johan Huizinga, L’autunno del Medioevo, trad. it., Sansoni, Firenze 1966. Interessante anche — proprio per l’orientamento marxista e progressista degli autori — Ruggero Romano e Alberto Tenenti, Alle origini del mondo moderno, Feltrinelli, Milano 1967. Per l’aspetto filosofico Rudolf Stadelmann, Il declino del Medioevo. Una crisi di valori, trad. it., Il Mulino, Bologna 1978 (l’originale edizione tedesca è del 1929).
(4) Fondamentale è Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, n. ed. it., Einaudi, Torino 1976, in particolare pp. 887-1326.
(5) Cfr. Giancarlo Sorgia, La politica nord-africana di Carlo V, Cedam, Padova 1963.
(6) A proposito di questo argomento si può vedere Franco Cardini, Le crociate tra il mito e la storia, Istituto di Cultura Nova Civitas, Roma 1971, pp. 292-332.
(7) F. Braudel, op. cit., considera il 1565 l’ultimo anno della supremazia turca.
(8) Cfr. Ubaldino Mori Ubaldini, La marina del sovrano militare ordine di San Giovanni di Gerusalemme di Rodi e di Malta, Regionale Editrice, Roma 1971. Per una visione d’insieme è tuttora fondamentale, sul piano degli avvenimenti militari, Camillo Manfroni, Storia della marina italiana dalla caduta di Costantinopoli alla battaglia di Lepanto (1453-1571), Roma 1897. Ricordo anche il congresso tenutosi a Venezia in occasione del quarto centenario, Il mediterraneo nella seconda metà del ’500 alla luce di Lepanto, Olfehki, Firenze 1974; cfr. anche Filipe Ruiz Martin, The battle of Lepanto and the Mediterranean, in The Journal of European Economic History, 1, 1 (1972), pp. 166-169.
(9) Cfr. U. Mori Ubaldini, op. cit., p. 220.
(10) Cfr. Francesco Balbi da Correggio, Diario dell’assedio di Malta, Palombi, Roma 1965; questo testo mi sembra il più interessante per avvicinarsi in modo diretto agli avvenimenti di quei mesi nell’isola.
(11) F. Braudel, op. cit., p. 1088.
(12) U. Mori Ubaldini, op. cit., p. 243.
(13) Cfr. Ludwig Von Pastor, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, trad. it., Roma 1944.
(14) F. Braudel, op. cit., p. 1100.
(15) Ibid., p. 1101
(16) Ibid., p. 1137.
(17) Ibid., p. 1176.
(18) A causa della tensione tra Cosimo e Filippo II le dodici galee toscane parteciparono come noleggiate dal Papa, le cui insegne — e non quelle stefaniane o medicee — innalzavano: cfr. Cesare Ciano, I primi Medici e il mare, Pacini, Pisa 1980, pp. 59-66.
(19) Cfr. Frederic C. Lane, Storia di Venezia, trad. it., 2a ed., Einaudi, Torino 1978, pp. 428-432.
(20) Una ricostruzione della galea reale di don Giovanni d’Austria si può vedere nel Museo Navale di Barcellona, in scala 1/1. Nella cattedrale della stessa città si conserva — ed è oggetto di gran devozione — un bel Crocifisso in legno, che si dice fosse a bordo della nave di don Giovanni.
(21) Cfr. Giovanni Pietro Contarini, Historia delle cose successe dal principio della guerra mossa da Selim ottomano ai Venetiani fino al dì della gran giornata vittoriosa contra i Turchi, Francesco Ramparetto, Venezia 1572, foglio 48 r.
(22) U. Mori Ubaldini, op. cit., p. 274.
(23) Si tratta dell’Uccialì o Uccialli delle fonti cristiane. Il comportamento del Doria fu molto criticato, sia da alcuni contemporanei che da alcuni storici moderni. Ma la storiografia contemporanea tende a riconoscere l’opportunità del suo comportamento.
(24) G. P. Contarini, op. cit., f. 50 v.
(25) Gerolamo Diedo, La battaglia di Lepanto, Daelli, Milano 1863, p. 35. Diedo era un veneziano abitante a Corfù, contemporaneo degli avvenimenti.
(26) Cfr. U. Mori Ubaldini, op. cit., p. 277.
(27) ci. Diedo, op. cit., pp. 29-30.
(28) Cfr. F. Lane, op. cit., p. 431.
(29) Cfr. F. Braudel, op. cit., p. 1181.
(30) Cfr. Paolo Preto, Peste e società a Venezia nel 1576, Neri Pozza, Vicenza 1978.
(31) Così conclude anche F. Braudel, op. cit., p. 1182 «[...] se, anziché badare soltanto a ciò che seguì a Lepanto, si pensasse alla situazione precedente, la vittoria apparirebbe come la fine di una miseria, la fine di un reale complesso d’inferiorità della Cristianità, la fine d’un altrettanto reale supremazia della flotta turca [...] Prima di far dell’ironia su Lepanto, seguendo le orme di Voltaire, è forse ragionevole considerare il significato immediato della vittoria. Esso fu enorme». Il contemporaneo Contarini (op. cit., f. 34), scrive che prima di Lepanto «già era da tutte le parti il Christianesimo pieno di terrore».
(32) Interessante documentazione in Guido Antonio Quarti, La battaglia di Lepanto nei canti popolari dell’epoca, Milano 1930.
(33) Andrea Dragonetti de Torres, La Lega di Lepanto nel carteggio diplomatico di don Luis de Torres nunzio straordinario di S. Pio V a Filippo II, Bocca, Torino 1931, p. 64. Peraltro, san Pio V aveva già ricevuto la notizia per mezzo di un rivelazione divina: cfr. card. Giorgio Grente, Il pontefice delle grandi battaglie San Pio V, Edizioni Paoline, Roma 1957, pp. 166-168.
(34) Ibid., pp. 62-63
(35) G. P. Contarini, op. cit., f. 54 r.
(36) Citato, non a caso, da Giovanni Cantoni, in conclusione del suo saggio introduttivo a P. Corrêa de Oliveira, op. cit., p. 50.
(37) Cfr. Pio Paschini, voce Lepanto, in Enciclopedia Cattolica.
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