Letteratura Copta, un esempio. Per trattare correttamente un argomento, si deve prima di tutto definire con esattezza i termini impiegati, altrimenti si rischia di parlare senza coerenza. Nel titolo della conferenza troviamo la parola “letteratura” che non fa problema, ma dopo viene l'aggettivo “copta” che viene spesso utilizzato, a parer mio, non adeguatamente. In questa sede intendo “copto” non nel senso di “lingua copta”, ancora meno nel senso nazionalistico che questa parola ha preso negli ultimi secoli, ma come l'espressione della tradizione alessandrina (che sia tramandata in greco, in copto boairico, saidico etc., oppure in arabo) che nasce al tempo della Chiesa indivisa e continua a vivere dopo il concilio di Calcedonia nella Chiesa Ortodossa in Egitto e nei paesi della Predicazione di S. Marco. Non dovremmo mai dimenticare che la parola “copto” è di origine araba e quindi totalmente anacronica quando parliamo di secoli anteriori all'arrivo degli Arabi in Egitto: sarebbe più giusto dire “egiziano cristiano”, ma lasciamo questo problema per un’ altra volta... Stasera, mi limiterò ad un esempio per illustrare la ricchezza della tradizione alessandrina. Il tema, quello della preghiera continua, è spirituale e spero che vi interesserà.
Lo troviamo espresso nella parabola di Gesù sul giudice ingiusto e sulla vedova importuna, dove il Divin Maestro parla della “necessità di pregare sempre, senza stancarsi” (Lc 18,1); anche l’Apostolo ci sprona dicendo: “Pregate incessantemente” e aggiunge: “in ogni cosa, rendete grazie” (1 Ts 5, 17 e 18).
Il primo autore ad attrarre la nostra attenzione è Origene (ca 185 – ca 254), di cui rimane nell'originale greco il bellissimo trattato Sulla preghiera. Sembra aver capito tutto quando scrive: "Colui che alle obbligatorie opere unisce la preghiera e alla preghiera le convenienti azioni, incessantemente prega, poiché le opere di virtù o i comandamenti osservati sono in parte preghiera; poiché soltanto così possiamo accogliere il pregare senza tregua come un comando traducibile in pratica, se chiameremo tutta la vita del santo un'unica, continua, grande orazione" (12,2).
Origene prende dunque molto sul serio la parola di Paolo sulla preghiera incessante, anzi è proprio per lui un imperativo, un ordine imprescindibile. Il vero problema, la vera questione è sapere come lo si può adempiere. Certo ci sono le preghiere vocali, soprattutto il Padre nostro al quale Origene dedica la seconda parte del trattato, e l’Alessandrino continua precisamente il testo citato osservando che almeno tre volte al giorno si fanno preghiere, come si vede già dal profeta Daniele (6,11v). Ma questo non basta, si deve pregare senza tregua e l’unico modo di farlo è vivere tutta la vita come una grande orazione. La sfida è lanciata, vediamo come in Egitto i santi l’hanno accettata.
Negli scritti di san Pacomio e della sua comunità, non troviamo quasi mai un’allusione esplicita al comando della preghiera continua. Soltanto nella Vita seconda greca, in uno degli ultimi paragrafi (§ 91) si parla del pregare continuamente fra le più importanti esortazioni di Pacomio in vista dell’amore fraterno. Tuttavia, la Vita boairica, più tardiva, descrive l’ideale monastico quasi all’inizio del racconto, quando il giovane Pacomio va ad incontrare il monaco Palemone che gli spiega in un solenne discorso cosa è la “misura del monachesimo” (§ 10): "Questa è la regola del monachesimo, secondo gli insegnamenti dei miei predecessori: noi passiamo sempre metà della notte e spesso anche dalla sera alla mattina vegliando, recitando la parola di Dio e facendo molti lavori manuali di filo, di lana, di fibra di palma, perché il sonno non ci sorprenda e per la sussistenza del corpo. Ciò che eccede i nostri bisogni, lo diamo ai poveri, secondo la parola dell'apostolo: Soltanto, che ci ricordiamo dei poveri. (Gal 2,10) Condire con olio, bere vino, mangiare cibi cotti, sono per noi cose sconosciute. In ogni tempo digiuniamo fino a sera: tutti i giorni, in estate, due o tre giorni di seguito, in inverno. Questa è la regola della colletta: sessanta orazioni al giorno e cinquanta la notte, senza contare le giaculatorie, che facciamo per non essere mentitori, perché ci è stato ordinato di pregare senza interruzione e colui che è triste preghi. (Gc 5,13) Ugualmente, nostro Signor Gesù Cristo ordina ai suoi discepoli: Pregate per non cadere in tentazione (Mt 26,41), perché la preghiera è madre di tutte le virtù."
In questo riassunto della vita monastica, la centralità della preghiera viene messa in luce. Nel sistema cenobitico di Pacomio, tocca alla liturgia celebrata in comune assumere un ruolo centrale. Come l’ha scritto uno specialista della liturgia pacomiana, l’ideale della Koinonia fondata da Pacomio è “la vita dei cristiani della prima comunità di Gerusalemme, che gli Atti degli Apostoli ci mostrano assidui alla dottrina degli Apostoli, alla koinonia, alla frazione del pane, alle preghiere comuni etc.” Tuttavia, come nel discorso di Palemone, il lavoro manuale è parte essenziale della “misura” monastica.
Se Pacomio ha fondato la sua comunità in Alto Egitto, troviamo in Basso Egitto, vicino ad Alessandria, un altro tipo di monachesimo, fra eremitismo e cenobistismo, fondato da Amun e Macario il Grande, prima a Nitria (vicino all'odierna al-Barnuğ), poi sempre più nel deserto, ai Kellia (presso Ab al-Matamr, vicino alla tenuta Gianaclis) e finalmente a Sceti (l'odierno Wd Natrn). A Nitria poi ai Kellia ha vissuto un Greco venuto dalla Cappadocia, discepolo di Basilio e Gregorio di Nissa, Evagrio Pontico, morto nel 399. È venuto in Egitto per imparare la vita monastica dai grandi Padri del deserto. Nel suo trattato sulla preghiera, non si trova nessun accenno diretto al nostro tema. Invece, nel Trattato pratico, n° 49, quasi alla metà del libro, il Pontico si esprime così: "Non ci è stato prescritto di lavorare e vegliare e digiunare di continuo, ma ci è stata fatta legge di pregare incessantemente, perché, mentre quelle [osservanze], che guariscono la parte passibile dell'anima, abbisognano, in ordine alla loro operazione, anche del nostro corpo, che non basta, per la sua debolezza, a [quelle] fatiche, la preghiera rende vigoroso e puro per il combattimento l'intelletto, che è naturalmente fatto per pregare, anche separatamente da questo corpo, e per dare battaglia ai demoni, a difesa di tutte le potenze dell'anima."
L’insegnamento dei Padri del deserto ci è giunto anzitutto attraverso un genere letterario di cui troviamo la prima testimonianza precisamente negli scritti di Evagrio, cioè gli "apoftegmi". Esistono tre grandi collezioni che risalgono alla seconda metà del V secolo, talvolta quindi più di un secolo dopo i Padri che hanno pronunciato le sentenze raccolte. Per di più, gli apoftegmi sono stati filtrati per togliere ogni sapore di origenismo. Comunque sia, troviamo un intero capitolo, il dodicesimo, intitolato "Sul pregare continuamente e nella veglia". Fra i ventotto apoftegmi che si trovano, alcuni esaltano la potenza della preghiera, capace di trasformare l’orante tutto di fuoco (n° 9). Il N° 6 mette in scena il vescovo Epifanio di Salamina, che aveva fondato monasteri in Palestina dove, apparentemente, le ore canoniche erano ben fisse: il beato Epifanio vescovo di Cipro aveva in Palestina un monastero. Il suo abate un giorno gli mandò a dire: "Grazie alle tue preghiere non abbiamo trascurato la nostra regola, ma con zelo celebriamo l'ora prima, terza, sesta, nona, e l'ufficio del lucernario". Ma egli li rimproverò con queste parole: "Evidentemente trascurate le altre ore del giorno astenendovi dalla preghiera. Il vero monaco deve avere incessantemente nel cuore la preghiera e la salmodia". Dietro il rimprovero del temibile vescovo, grande cacciatore di eresie, si nasconde il problema cruciale per il monaco di come adempiere il precetto di pregare continuamente quando non è più il tempo della sinassi, cioè del raccoglimento solitario o comune per la preghiera. Due apoftegmi ci mostrano il monaco perfetto che continua a pregare allorché mangia oppure passa il tempo in conversazione con altri.
L’apoftegma attribuito a Lucio (n° 9) rimane quanto a lui il locus classicus della questione, ripreso dagli studiosi moderni: un giorno si recarono dal padre Lucio a Ennaton alcuni monaci chiamati euchiti. "Qual'è il vostro lavoro manuale?" Chiese l'anziano. Dissero: "Noi non tocchiamo lavoro manuale, ma come dice l'apostolo, preghiamo senza interruzione." "Ma, non mangiate?" Disse l'anziano. "Sí!" - "E allora, mentre mangiate, chi prega per voi?" Disse quindi: "Non dormite?" - "Sí!" - "Dunque, mentre dormite, chi prega per voi?" Ma non sapevano che rispondere a queste domande. "Scusatemi - disse loro l'anziano - ma voi non fate come dite, io vi dimostro che, mentre compio il mio lavoro manuale, prego incessantemente. Io me ne sto seduto con Dio a inumidire i miei ramoscelli di palma e a intrecciarli in corde, e dico: Abbi pietà di me o Dio nella tua grande misericordia, nella moltitudine delle tue compassioni cancella il mio delitto. (Sal 50,1)Non è preghiera questa?" Dicono "Sí!" Dice: "Se dunque trascorso tutto il giorno lavorando e pregando, guadagno più o meno sedici monete. Ne do due in elemosina e col resto mi mantengo. E quello che riceve le due monete prega per me quando mangio e quando dormo; così per la grazia di Dio adempio al pregate senza interruzione". Questi euchiti sono probabilmente Messaliani, cioè monaci tenuti per eretici il cui movimento nasce in Siria e che cercano la soluzione alla preghiera costante nel rifiuto del lavoro e quindi, nella ripartizione delle cariche: i monaci “perfetti” si dedicano completamente alla preghiera, allorché i “giusti” prendono cura materialmente di loro, una soluzione che certamente non è la migliore!
La risposta d’un anonimo alla domanda: “Cos'è il pregare continuamente?” ci aiuta a fare un passo avanti. Egli risponde: "È la supplica che sale a Dio dal profondo del cuore per chiedere quello che conviene. Difatti non soltanto preghiamo quando ci teniamo in piedi per la preghiera, ma vera preghiera è quando puoi pregare sempre in te stesso." (n° 20) Quindi la preghiera incessante viene da se stesso, kaq¡ eJautovn, non può essere lasciata alla cura degli altri, come lo pensava forse troppo ingenuamente Lucio.
Ciò che conta, come recita l’apoftegma anonimo 23, è perseverare sempre, in ogni luogo e in ogni circostanza, nel ricordo di Dio, proskarterw'n th/' mnhvmh/ tou' Qeou'. Ma come ricordarsi sempre di Lui? Noi che abbiamo tralasciato gli esercizi mnemonici per affidare tutto al computer e ad altri mezzi moderni, non siamo più in grado di capire quanto gli antichi erano capaci di imparare a memoria.
Per i monaci, sapere tutti i Salmi, i Vangeli, brani interi della Sacra Scrittura era un esercizio normale. Durante il loro lavoro quotidiano, spesso molto semplice e ripetitivo come intrecciare le corde, potevano continuamente recitare brani che sapevano a memoria. Il primo apoftegma della serie alfabetica (nella serie sistematica, il n° VII, 1) ci illustra perfettamente questa attività, alla lettera, salvifica: un giorno il santo padre Antonio, mentre sedeva nel deserto, fu preso da sconforto [accidia] e da fitta tenebra di pensieri.
E diceva a Dio: "O Signore! Io voglio salvarmi, ma i pensieri me lo impediscono. Che posso fare nella mia afflizione?" Ora, sporgendosi un po', Antonio vede un altro come lui, che sta seduto e lavora, poi interrompe il lavoro, si alza in piedi e prega, poi di nuovo si mette seduto a intrecciare corde, e poi ancora si alza e prega. Era un angelo del Signore, mandato per correggere Antonio e dargli forza. E udì l'angelo che diceva: "Fa' così e sarai salvo". A udire quelle parole, fu preso da grande gioia e coraggio: così fece e si salvò.
Ma quale era la formula di preghiera dell’angelo nell'apparizione ad Antonio? Non lo sappiamo. Invece, sempre nel capitolo della collezione sistematica sul pregare incessantemente, leggiamo quest’apoftegma di Macario l’Egiziano (n° 11): chiesero al padre Macario: "Come dobbiamo pregare?" L'anziano disse loro: "Non c'è bisogno di dire vane parole, ma di tendere le mani e dire: Signore, come vuoi e come sai, abbi pietà di me." Quando sopraggiunge una tentazione basta dire: "Signore, aiutami!" Poiché egli sa che cosa è bene per noi e a noi fa misericordia.
La pratica assidua delle giaculatorie alla grande epoca dei Padri del deserto, come quella di Macario, è evidenziata da numerose storie e serviva specialmente, come la propone con forza Evagrio, di antirretico contro le tentazioni. L’abbiamo del resto già incontrata nell’apoftegma di abba Lucio che ripete il primo versetto del Miserere. C’erano atleti spirituali che potevano recitare centinaia di preghiere al giorno, come nel racconto alquanto fantastico su Paolo di Ferme, narrato da Palladio, nella sua Historia lausiaca § 20: C'è nell'Egitto un monte che conduce al grande deserto della Scete, e si chiama Ferme. Su questo monte abitano circa cinquecento uomini che si dedicano all'ascesi: fra di loro un certo Paolo (così lo chiamano) tenne questo modo di vita: non diede mano ad alcun lavoro né attività, e non accettò nulla da nessuno all'infuori del cibo che mangiava. La sua occupazione e la sua ascesi consistevano nel pregare ininterrottamente. Recitava trecento preghiere prestabilite: raccoglieva altrettante pietruzze che teneva in seno, gettandone fuori una per ogni preghiera che recitava. Incontratosi con il santo Macario (che è soprannominato il Cittadino) per un colloquio, gli disse: "Padre Macario, sono angustiato". L'altro lo costrinse a spiegargli la ragione. Ed egli disse: "In un villaggio abita una vergine che da trenta anni pratica l'ascesi; di lei mi hanno raccontato che non tocca mai cibo, all'infuori del sabato e della domenica, ma lascia trascorrere le settimane in tutta l'ampiezza del tempo mangiando solo ogni cinque giorni, e così riesce a recitare settecento preghiere. E io, apprendendo questo, ho disperato di me stesso, perché non sono stato capace di superare le trecento". Il santo Macario gli rispose: "Io dopo sessant'anni di vita recito ogni giorno cento preghiere stabilite, compio il lavoro necessario a procurarmi il nutrimento e soddisfo all'obbligo di concedere colloqui ai confratelli, e la mia ragione non mi condanna come se avessi mancato di diligenza. Se tu, pur recitando trecento preghiere, ti senti condannato dalla tua coscienza, è chiaro che non preghi con cuore puro, o che sei in grado di pregare anche di più e che non lo fai."
Nella decima Conferenza, § 10, di Giovanni Cassiano, monaco latino formato alla scuola dei monaci di Nitria e di Evagrio, ci viene proposto un insegnamento particolare sulla preghiera, messo nella bocca d’un abba Isacco, discepolo di Antonio il Grande: per aver un continuo ricordo di Dio, si deve ripetere il versetto 2 del Salmo 69/70, cioè “O Dio, vieni in mio aiuto; Signore, vieni presto ad aiutarmi”, grido del monaco che si sa peccatore e bisognoso della divina misericordia. Lo stesso aspetto penitenziale si ritrova nella giaculatoria di Apollo, quel monaco che, avendo vissuto quaranta anni nel peccato, si promette di passare i prossimi quarant'anni pregando Dio senza tregua perché gli accordi il perdono, dicendo continuamente: "Io ho peccato, perché sono uomo, ma tu che sei Dio, perdonami!" (collezione alfabetica, Apollo n° 2).
Ancora più interessante il consiglio di abba Ammonas (n° 4 alfabetico) ad un monaco tentato da tre idee, quella di andare errando nel deserto, quella di fuggire all'estero dove nessuno lo conoscerà, oppure di vivere in recluso senza vedere nessuno; Ammonas replica: "Nessuna di queste tre cose ti giova. Rimani piuttosto nella tua cella, mangia un po' ogni giorno, medita incessantemente nel tuo cuore la parola del pubblicano, e potrai salvarti." Ora, la parola del pubblicano è quella di Lc 18,13: "O Dio, abbi pietà di me peccatore": siamo quasi arrivati alla formula della preghiera di Gesù, tanto cara alla tradizione esicasta!
Per andare oltre, dobbiamo spostarci dall'Egitto alla Palestina, più precisamente nella regione di Gaza dove è vissuto quale recluso Barsanufio (450 c. - ?), un Egiziano come il nome lo fa capire, di lingua madre copta e di fede calcedonese. L’Epistolario che abbiamo di lui e di suo discepolo Giovanni di Gaza, con le risposte che davano a chi chiedeva loro consigli spirituali, è una testimonianza eccezionale che raccoglie i frutti di tutta la tradizione dei Padri del deserto. Più d’una volta viene esemplificato il precetto di 1Ts 5, 19, ma a noi importano di più gli accenni alla giaculatoria sul nome di Gesù. In questo nome ci possiamo sempre rifugiare, insegna la Lettera 304; nelle tentazioni, è buono dire: "Signore Gesú Cristo, salvami!" (Lettera 255), "Sovrano Gesù, proteggimi, e vieni in aiuto alla mia debolezza!" (Lettera 659); Barsanufio ordina a qualcuno di dire continuamente "Gesú aiutami!" (Lettera 268). Sappiamo addirittura che la formula "Signore Gesù Cristo abbi pietà di me!" era ben conosciuta e praticata a Gaza.
Dobbiamo nondimeno valutare attentamente la risposta di Giovanni, piena di equilibrio spirituale (Lettera 175): [Domanda:] "È forse bene applicarmi alla preghiera: Signore Gesú Cristo abbi pietà di me, o piuttosto ripetere a memoria dalla divina Scrittura e recitare dei salmi?" Risposta. "Bisogna fare entrambe le cose, un po' di questo e un po' di quello; è scritto infatti: Queste cose bisognava fare e quelle non ometterle." [Mt 23,23]
Quindi la preghiera monologistos risale almeno agli inizi del secolo VI. Ne abbiamo un po’ meno di due secoli dopo una altra testimonianza, alquanto straordinaria, poiché si tratta di un’iscrizione parietale dentro una cella del sito monastico di Kellia. Fu scoperta nel 1965, copiata e pubblicata; oggigiorno, non resta quasi nulla del sito, totalmente trasformato dalle coltivazioni. La versione copta dell’iscrizione non è sempre chiara, ma esiste una versione araba del testo. Si tratta d’un apoftegma nel quale un anziano dice di non dar retta ai demoni che criticano la preghiera indirizzata soltanto a Gesù, come se trascurasse il Padre e lo Spirito Santo. Sulla base di tali testimonianze ed altre, gli studiosi possono determinare che la preghiera di Gesù era molto praticata nei monasteri della regione a sud di Alessandria durante lunga parte del medioevo, in particolare in quello di San Macario. Non sembra che possiamo dire lo stesso dei monasteri dell’Alto Egitto che seguivano tradizioni diverse.
Dopo l’invasione araba (verso il 640), la vita spirituale della Chiesa copta si concentrerà sempre di più nella liturgia e proprio nella salmodia annuale si è potuto notare la persistenza del culto al nome di Gesù!
Il rinnovo della Chiesa copta ortodossa, assopita durante tutti i secoli del dominio ottomano, si è manifestato anche al livello spirituale. Un fiore del deserto, il monaco Matta el Meskin (1919-2006), rifondatore del monastero di San Macario, ci ha lasciato una ponderosa opera ascetica. Il suo libro tradotto in italiano sotto il titolo "L’esperienza di Dio nella preghiera" contiene un capitolo su “La preghiera continua”, che egli descrive come una disciplina spirituale particolare che impegna le facoltà interiori dell'anima e tocca centri precisi del cervello con lo scopo d'acquisire la calma interiore necessaria a pervenire a uno stato di veglia spirituale costante e di percezione permanente della presenza divina, accompagnata da un completo dominio dei pensieri e delle passioni. Costituisce l'opera spirituale più importante e più elevata che, condotta con successo, può farci raggiungere le vette della vita spirituale. Fedele alla tradizione dei monaci del nord dell'Egitto, egli propone la preghiera di Gesù come modello e aggiunge: "L'autore stesso confessa i benefici di questa preghiera per quanto lo riguarda personalmente".
Con questa testimonianza che viene da uno dei migliori figli della Chiesa copta di oggi terminiamo il nostro percorso intorno al precetto del pregare continuamente nella tradizione alessandrina. Siamo partiti dalla visione di Origene per arrivare a Matta el Meskin, dalla considerazione di tutta la vita del santo come una grande orazione all’umile pratica della preghiera del cuore. Strada facendo, abbiamo anche visto come non si può studiare la tradizione “copta”, nel senso dato alla parola all'inizio, senza tener conto di testi scritti in greco, addirittura in latino, che conservano memoria della spiritualità egiziana dei IV e V secoli. Secondo me, non è corretto parlare di letteratura copta senza badare a tutta la tradizione alessandrina.
Philippe Luisier sj – Pontificio Istituto Orientale, Roma/Alessandria, settembre 2008.
(per gentile concessione)
Tratto da natidallospirito.com
Nessun commento:
Posta un commento