Domenica 18 marzo 2012.
IV Domenica di Quaresima - Anno (B).
Dal Vangelo secondo Giovanni .
E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna».
Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna.
Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui.
Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è gia stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di Dio.
E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie.
E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie.
Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere.
Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio
Meditazione
Chissà quante volte abbiamo sentito o letto questa frase: tante volte. Forse però non l’abbiamo sempre ascoltata e compresa nel suo significato profondo.
L’amore del Padre per il mondo supera ogni intelligenza e ogni ragionevole buonsenso. Chi di noi sacrificherebbe il proprio figlio unigenito per il mondo? Se poi consideriamo il significato che l’evangelista dà al termine “mondo”, credo che nessuno si sognerebbe anche solo di far passare un quarto d’ora in un simile inferno, al frutto delle proprie viscere; altro che sacrificio!
Per Giovanni il mondo (κόσμος, còsmos da cui: cosmesi) non è il beautycase di Dio, non è un contenitore di cose belle. Al contrario è quell’espressione distorta e bieca di un’umanità corrotta dal peccato. Il Padre dà suo Figlio per questa umanità. Potrebbe sembrare un gioco di parole, ma in realtà non lo è affatto: Il Figlio di Dio è donato per restituire bellezza a quel che l’ha perduta. Il mondo dunque fintanto continua ad essere oscurato dalle tenebre del rifiuto di Dio, non è più còsmos, non è più bello.
La risposta alla precedente domanda, quindi, dovrebbe essere, a questo punto, priva d’incertezze: nessuno sacrificherebbe il proprio figlio per un mondo così. La verità però, è che lo facciamo, eccome.
Non mi piace elencare i nomi degli idoli e degli altari sui quali immoliamo le giovani vite dei nostri figli, o le false croci che gli carichiamo addosso come fossero zaini carichi di libri, per una scuola di meschinità. Mi basta dire che il Figlio è morto per uccidere per quel che ingenuamente crediamo vivo, e talvolta risuscitiamo; quanti sacrifici facciamo per cose inutili o dannose!
Il mondo per cui il Padre offre suo Figlio è quel lato oscuro dentro e fuori di noi, nel quale non abbiamo ancora trovato il coraggio di innalzare la lampada della Croce di Cristo, perché tutto sommato al buio non si sta poi così male...
Ad ogni modo, è bene ricordarsi, che per gli amanti dell’ombra la sentenza è inflessibile, perché la luce di Cristo pur facendo appello alla parte buona e limpida del nostro animo, lo trova, il più delle volte, opacizzato. La luce si sacrifica per moltiplicare se stessa nelle tenebre, ma ha comunque bisogno di specchi che la riflettano. Dobbiamo quindi manifestare (rifrangere) nel mondo quel che Cristo ha fatto risplendere nel nostro cuore sin dal giorno del nostro battesimo; ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra! (cfr. Mt 6,23).
La passione e morte dell’Unigenito è servita dunque perché il creato ritrovasse la propria bellezza, la sua divina e originale cosmesi.
Nella prima lettura abbiamo un altro esempio di quanto abbiamo detto finora. Per il popolo d’Israele l’esperienza della deportazione è stata terribile ed umiliante, ma anche risanante: una quarantena di guarigione interiore.
Trovarsi lontani dalla propria terra d’origine, nel buio della tristezza, può essere anche una lezione di disciplina spirituale; per riflettere sulle azioni commesse, e per decidere finalmente da che parte stare. L’esilio dunque insegna che, imitare l’abominio vuol dire attirarlo su se stessi, e le infedeltà si tramutano sempre in sciagura.
Quel che avrebbe dovuto rappresentare la forza spirituale d’Israele e il suo amore per Dio, si tramuta in mucchio di macerie. Il tempio di Gerusalemme anche se è stato distrutto materialmente dai Caldei, nel suo significato religioso era già stato abbattuto, molto tempo prima, dalle infedeltà degli israeliti. La deportazione del popolo acquista allora un significato pedagogico: allontanarsi dal disastro occorre per averne una più limpida coscienza; o come accennavamo prima: Dio per farci apprezzare l’importanza della sua luce ci lascia brancolare nel buio delle nostre infedeltà.
Quel pianto sui fiumi di Babilonia, motivo ispiratore di una famosissima opera teatrale di Giuseppe Verdi, porta con se tutta l’amarezza per il tempo perduto. Nessun luogo può farci sentire davvero a casa, se non quello dove il nostro cuore, lavato dal pianto, trova finalmente la pace. Là, le infedeltà sono miracolosamente dimenticate, perché Dio solleva da ogni caduta, e insegna a camminare dritto anche a quelli che credono di esser nati con le gambe storte.
Sia lodato Gesù Cristo.
Don Maurizio Roma.
Parroco della pievedilubaco »»»
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